David B. Green, Arret sur Info, 12 febbraio 2018

Netanyahu e Barak
L’accattivante resoconto di Ronen Bergman sugli omicidi mirati da parte d’Israele svela per la prima volta numerose operazioni in nome della sicurezza nazionale. Alcune possono ispirare il lettore, altre fanno vomitare. Cito un episodio imbarazzante solo per presentare il nuovo libro di Bergman, “Rise and Kill First: The Secret History of Targeted Assassinations of Israel“, un successone in ogni senso della parola, incluse le 630 pagine completate da 70 di note e 10 molto dense di fonti orali e scritte. (C’è anche un indice molto utile). Potreste pensare che sia un maniaco (o anche ossessionato), ma la documentazione di Bergman non è pretenziosa o esagerata. Al contrario, fornisce le fonti essenziali su centinaia di episodi della storia dell’intelligence e dei servizi di sicurezza israeliani. Si va da prima dello Stato, quando agenti sionisti uccidevano funzionari inglesi e “predoni arabi” (termine sionista per combattenti palestinesi, ndr) in Palestina e assassini di nazisti in Europa, fino ai recenti attacchi ai “signori del terrore” di Hamas e Hezbollah e la serie di morti improvvise di ingegneri nucleari iraniani, altrimenti in perfetta salute. Alcune di tali storie sembrano difficili da credere, non solo perché paiono uscire da romanzi di spionaggio, ma anche perché è difficile credere che così tanti appaiano qui per la prima volta in un volume. Ma un’attenta lettura degli appunti di Bergman ci dice che la maggior parte delle operazioni descritte nel libro, molte dei quali omicidi, gli fu rivelata con interviste personali (ad oltre 1000 fonti, spesso identificate solo da nomi in codice) o da documenti che gli sono capitati tra le mani.
Atti eroici e altri meno
Max Weber ha scritto che nella società moderna lo Stato ha il monopolio della violenza legittima. Ciò implica che, in uno Stato democratico, l’uso della forza occulta vada controllato dai capi eletti dello Stato. Se “Rise and Kill First” ha un messaggio, è necessario pensarci due volte (rapidamente) prima di uccidere e avere l’approvazione di chi deve supervisionare il quadro generale. (Il titolo del libro è tratto dal testo midrash Bamidbar Rabbah 1, che dice: “Chiunque venga ad ucciderti, uccidilo prima“). Dei molti eroi del libro di Bergman, il caso Meir Dagan, “la macchina per uccidere” in cui “il meccanismo della paura era gravemente carente“, secondo uno dei suoi soldati, divenuto capo del Mossad, viene in mente; erano capaci di commettere omicidi a sangue freddo in nome dello Stato. Solo il lettore ingenuo può negare che Israele abbia un forte debito nei loro confronti per responsabilità e rischi assunti personalmente.

Da sinistra: Meir Dagan, Yehuda Danguri e Avigdor Ben-Gal, comandanti di commando.
Ma il libro è anche pieno di esempi di persone che si lasciarono trasportare, a dir poco. Anche se racconta storie di exploit sofisticati che non hanno nulla da invidiare a James Bond o “Mission: Impossible”, Bergman mette sistematicamente in discussione necessità e moralità di tali azioni, che ovviamente non potevano essere discusse in pubblico prima di essere completate. Due settimane fa, il New York Times pubblicò un estratto dal libro, in cui l’ex-comandante dell’aeronautica israeliana David Ivri descrive come, in un tentato omicidio di Yasir Arafat nell’ottobre 1982, Israele quasi abbatté l’aereo che trasportava il fratello Fathi Arafat. Fathi, un medico che assomigliava al fratello ma con una barba più folta, accompagnava 30 bambini palestinesi feriti da Beirut a Cairo per le cure. Diverse fonti d’intelligence localizzarono erroneamente Yasir Arafat sull’aereo e due F-15 israeliani decollarono pronti a lanciargli missili contro. Ma, messo a disagio, Ivri sospese l’azione, nonostante l’insistenza del Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, tenente-generale Rafael (“Raful”) Eitan, che gli disse di finire il lavoro. Solo un rapporto del Mossad e dell’intelligence militare, che indicava che non c’era l’Arafat giusto a bordo dell’aereo, provocò la cancellazione della missione, ma fu quasi attuata. Si sa che Eitan e il suo superiore, il ministro della Difesa Ariel Sharon, erano ossessionati dall’idea di uccidere il leader dell’OLP (avevano costituito una squadra speciale guidata da due veterani dei servizi di intelligence, Dagan e Rafi Eitan, col nome in codice “Dag Maluah”, Stuzzichino di aringhe). Bergman cita Aviem Sella, all’epoca capo delle operazioni dell’Aeronautica (e che, pochi anni dopo, fu l’ufficiale di Jonathan Pollard all’ambasciata israeliana di Washington), descrivendo una missione privata per uccidere Arafat, su iniziativa del capo di Stato Maggiore, in Libano nell’agosto 1982. “Volerai sull’aereo“, un caccia fantasma, “e io sarò il navigatore e mitragliere-bombardiere“, disse Rafael Eitan, secondo Sella, “Bombarderemo Bayrut“. I due effettuarono due bombardamenti quel giorno, ma Arafat non era nell’edificio preso di mira dall’attacco. Sella quindi dice a Bergman che il capo di Stato Maggiore, intervistato quella notte presso Bayrut da un reporter televisivo, “disse che Israele si è astenuto dal bombardare edifici in un’area in cui vivevano civili”, esattamente ciò che fecero quella mattina.
Mostrando un’intuizione che sembrava sempre metterlo in guardia da tali minacce, Arafat sfuggì regolarmente alle grinfie d’Israele, a volte pochi secondi prima di un attacco. Fu solo nel 2004 che alla fine la morte lo colse, morendo di una misteriosa malattia in un ospedale parigino. Diverse autopsie nei giorni e negli anni seguenti non hanno potuto determinarne la causa. Bergman ci dice che anche se sa cos’ha causato la morte di Arafat, “Non potrei scriverlo in questo libro, né scrivere di sapere la risposta. Ordini del censore militare”. Tuttavia, chi può leggere tra le righe può legittimamente capire che Bergman è convinto che Israele istigò la “misteriosa malattia intestinale” che infine uccise il leader palestinese.
Ecco un piccolo esempio delle altre operazioni descritte per la prima volta nel libro di Bergman:
Nell’ottobre 1956, Israele abbatté un aereo egiziano che trasportava del personale, ma non il capo di Stato Maggiore che era su un secondo aereo, di ritorno da un incontro a Damasco alcuni giorni prima dell’inizio della campagna del Sinai. Non sorprende che Israele sconfisse gli egiziani demoralizzati nella guerra che ne seguì, il che non gli impedì di perdere la pace.
Nel 1965, re Hassan II del Marocco permise a Israele di spiare i capi arabi riunitisi nel vertice a Casablanca. Tuttavia, lo stesso anno, il Marocco chiese in cambio che rintracciassero e uccidessero il leader dell’opposizione Mahdi Ben Barqa. Non furono gli israeliani ad affogare Ben Barqa in una vasca da bagno a Parigi, ma aiutarono gli agenti marocchini a farlo, e in seguito si sbarazzarono del corpo che, secondo alcuni, fu sepolto nel sito di quella che è oggi la sede della Fondazione Louis-Vuitton.
Nel 1968, lo psicologo della Marina Benjamin Shalit (se il nome suona familiare, è perché quello stesso anno era il querelante nello storico processo chiamato “Chi è un Ebreo” (2) ), ebbe l’idea di “lavare il cervello” a un prigioniero palestinese ed ipnotizzarlo per farne un assassino programmato. Fu poi inviato in Giordania come agente dormiente e, quando si presentò l’occasione, avrebbe dovuto uccidere… Yasir Arafat, naturalmente! Shalit ricevette il prigioniero, di nome Fatqi, e lo lavorò per tre mesi. Uno degli informatori di Bergman ricorda che la notte in cui Fatqi attraversò il fiume giordano, salutò i suoi mentori e “con la mano fece finta di impugnare una pistola e mirare a un bersaglio immaginario tra gli occhi. Notai che Shalit era contento del suo paziente. Poche ore dopo, l’intelligence militare ricevette un rapporto su un giovane palestinese consegnatosi, armato della pistola, alla polizia giordana, a cui aveva immediatamente raccontato la storia del tentativo di lavaggio del cervello che aveva subito in Israele”.
Il defunto generale Avigdor Ben-Gal disse a Bergman come, da generale che comandava la regione settentrionale nel 1981, in seguito all’attentato di Nahariya nel 1979, ricevette l’ordine dal capo di Stato Maggiore Eitan: “Uccidili tutti“. Ben-Gal disse a sua volta che, dopo aver nominato lo specialista delle operazioni speciali Dagan a capo di una nuova unità nel sud del Libano, gli disse: “Ora sei l’imperatore qui. Fai quello che vuoi”. Bergman descrive quindi una lunga serie di omicidi che Ben-Gal e Dagan nascosero ai loro superiori, tranne Eitan, compreso il capo dell’intelligence militare Yehoshua Saguy. Reclutarono membri della milizia libanese e, secondo Ben-Gal, “li misero gli uni contro gli altri“.

Mahdi Ben Barqah
Seminare vento
Negli anni che seguirono, di fronte alle continue minacce provenienti dalla cosiddetta “Fatahland” nel sud del Libano, per la libertà di cui godevano Arafat e altri, molti ufficiali israeliani si convinsero della necessità d’invadere la regione e liquidare la rete palestinese trinceratavisi. Solo che mancava il pretesto. Gli informatori di Bergman descrissero alcuni metodi che Israele usò per scatenare disordini nel sud del Libano, con l’apparente speranza di provocare una reazione che giustificasse l’invasione israeliana. Quando Israele finalmente lanciò l’invasione del Libano nel giugno 1982, la sua giustificazione fu il tentato omicidio dell’ambasciatore d’Israele a Londra. Tranne che Israele sapeva che l’assalitore che aveva ferito gravemente Shlomo Argov operava agli ordini di Abu Nidal, capo del dissidente Fatah-Consiglio rivoluzionario, difficilmente meno ostile all’OLP di Israele.
“Rise and Kill First” non è un libro apertamente politico ma, a più riprese, gli informatori di Bergman, coloro che usarono armi e bombe, piazzarono trappole e ordirono trame intricate per ingannare ed abbattere i nemici decisi a distruggere Israele e uccidere gli ebrei, arrivati alla fine della loro vita, dissero al giornalista che la violenza ha generato violenza. E il successo, l’arroganza. Dalle prime pagine del libro, Ehud Barak, ex-primo ministro, capo di Stato Maggiore e “commando straordinario”, mai considerato un sognatore, parla delle conseguenze a lungo termine della stupefacente operazione “Primavera della gioventù” a Bayrut (dove Barak e Amiram Levin si travestirono da donne). Bergman racconta quasi minuto per minuto l’operazione, che coinvolse la prima azione coordinata di oltre 3000 uomini di Mossad, IDF, 13.ma Flottiglia, paracadutisti e commando Sayeret Matkal dell’AMAN (intelligence militare), oltre ad agenti doppi informatori in Libano. Siamo meravigliati della precisione con cui l’operazione fu concepita, così come dall’immaginazione dei suoi ideatori, e siamo scioccati dall’apprendere che un agente del Mossad andò nel panico a Bayrut e che senza informare nessuno, partì con due colleghi feriti laddove avrebbe dovuto incontrare i camerati e avrebbero potuto essere medicati. Alcuni soldati erano furiosi e una volta riunitisi sulle loro canoe per tornare in Israele, scoppiò una rissa tra loro e l’uomo del Mossad. A quarant’anni dalla missione, in cui 50 membri dell’OLP furono uccisi e fu trovata una miniera di preziosi documenti dell’organizzazione, Barak suggerì che l’operazione permise una sicurezza ingiustificata. “È impossibile proiettare il successo di un raid chirurgico, con un obiettivo ben preciso, sulle capacità dell’intero esercito, come se le IDF potessero fare tutto, che fossimo onnipotenti”.

Ehud Barak, a destra, e Amnon Lipkin-Shahak, allora dei commando, a metà degli anni ’70.
Lo stesso Bergman va oltre alla fine del libro sostenendo che Mossad, AMAN e il servizio di sicurezza Shin Bet, “hanno sempre dato ai capi israeliani risposte operative a tutti i problemi che andavano affrontati con le loro soluzioni. Ma gli stessi successi dell’intelligence crearono l’illusione, tra i capi del Paese, che le operazioni segrete fossero uno strumento strategico e non solo tattico, che potessero sostituire la diplomazia nella risoluzione dei conflitti geografici, etnici e nazionali in cui Israele è impantanato“. Non c’è bisogno di essere Carl von Clausewitz per riconoscere che nulla sostituisce una visione strategica e l’arte del compromesso politico. Quando le azioni delle forze di sicurezza israeliane diedero ad Israele un vantaggio tattico temporaneo, e ci sono molti esempi stupefacenti di tali azioni nel libro di Bergman, furono molto utili. Ma spetta ai capi politici sfruttare al massimo tali benefici e trarne profitti politici permanenti.

Rafael Eitan
NdT
1- Midrash (parola ebraica formata sul radicale dr-sh, interroga, richiede, interpreta): un metodo ermeneutico dell’esegesi biblica che opera principalmente confrontando diversi passaggi biblici; così come, per la metonimia: la letteratura che raccoglie questi commenti.
2- Benjamin Shalit aveva sposato una straniera non ebrea. Si dichiarò ateo. Quando volle che la nazionalità israeliana venisse riconosciuta ai figli, le autorità israeliane obiettarono. Fece appello alla Corte Suprema dello Stato che gli diede ragione, ma poco dopo fu votata una legge allineata alle posizioni dei religiosi.
Traduzione di Alessandro Lattanzio